Intervista a Paolo Mascherpa

Intervista a Paolo Mascherpa

Chiacchieriamo piacevolmente con Paolo Mascherpa, autore di “L’arcobaleno nel deserto. Diario di un bipolare”. Il libro è un’autobiografia che narra le vicende dell’autore dall’anno 1996 fino al 2019. Attraverso il racconto diaristico, Paolo mostra, in modo coinvolgente e sofferto, tutti gli aspetti della sindrome maniaco–depressiva conosciuta anche come bipolarismo.

Cerchiamo di entrare con delicatezza nell’argomento: che cos’è e come si manifesta il disturbo bipolare?
Premetto che non sono un medico. Quello che posso dire è che il disturbo bipolare è una patologia che rientra nella categoria dei disturbi dell’umore. È una sindrome che perdura nel tempo e interferisce con le normali funzioni sociali e lavorative. È definita anche come psicosi maniaco – depressiva.
Da quello che ho letto, visto e vissuto so che può assumere molte forme diverse e livelli di gravità. Le variazioni di umore possono avvenire nella stessa giornata, durante una settimana o addirittura possono verificarsi crisi a distanza di anni. Quando gli sbalzi d’umore sono più ravvicinati è più complesso calibrare la terapia. Quando gli episodi sono ben definiti e distanziati, come nel mio caso, è più semplice. In generale è un disturbo molto pericoloso nelle forme gravi e quasi sempre distruttivo delle relazioni sociali e in grado di compromettere il normale svolgimento della vita. Però si può guarire o perlomeno convivere con il disturbo e vivere una vita felice.

Quando hai scoperto di soffrire di bipolarismo? 
Ricordo che quando ero piccolo mi capitava, ogni tanto, di scrivere delle lettere a me stesso per capire cosa mi succedeva ma credo che questi atteggiamenti fossero riconducibili alla mia sensibilità. Crescendo ho notato che faticavo a gestire lo stress, magari a scuola o all’università, ma non ho mai pensato di avere un problema medico. Semplicemente me la prendevo troppo e temevo oltremisura il giudizio degli altri. Ero giovane e vivevo una vita per larga parte divertente. Il segnale che avrei dovuto non sottovalutare è stato il primo episodio depressivo nel periodo precedente la tesi di laurea. Commisi l’errore di non parlarne con nessuno nonostante le cose che pensai e feci fossero terribili. Certamente sapevo poco di depressione, ero davvero prostrato e mi vergognai di parlarne. Il periodo di fortissimo stress passò dopo che, con gran fatica, mi laureai e tutto tornò alla normalità fino all’episodio maniacale durante la leva militare. La prima diagnosi fu fatta in occasione del congedo alle visite mediche all’ospedale militare di Milano. Avevo 26 anni.

E’ possibile guarire?
Sì. È possibile. Per prima cosa è necessario accettare il disturbo, come fosse una qualsiasi altra malattia e poi, con grande impegno, compiere le azioni che ogni paziente di una qualsiasi malattia fa. Affidarsi ai medici, che in questo caso sono psichiatri e psicologi e assumere i farmaci. Nel mio caso è stato necessario anche un percorso di quattro anni di psicoterapia. Rivestono un’importanza capitale i famigliari e gli amici che devono supportare, ognuno come può, il paziente, sempre coordinati dagli specialisti. Personalmente non ci sarei riuscito se intorno a me non si fosse formata un’alleanza di persone, una rete di protezione, che aveva l’unico scopo di vedermi guarito e felice.

Che ricordi hai dei periodi depressivi e di quelli maniacali?
Sintetizzo. I periodi depressivi sono oscuri, privi di parole, di appetito, pieni di paure, di pensieri negativi, ossessivi. Si sta immobili nella speranza che nulla e nessuno venga mai a pungolarti come se tu sapessi di essere una statua di cristallo che potrebbe rompersi da un momento all’altro. Non si hanno motivazioni o sogni e per questo nessuna azione ha significato.
L’episodio maniacale nella sua fase culminante è un tornado di idee, parole, corse, pericolose peripezie in auto, spese sconsiderate, frenesia, manie di grandezza, deliri mistici e non e allucinazioni.

Che cosa ti ha spinto a scrivere L’arcobaleno nel deserto?
Inizialmente il motivo era solo personale, per capire cosa mi succedeva. Per autoterapia. Poi dopo diverse riscritture e, soprattutto, dopo essere guarito, ho capito che dovevo condividere la mia esperienza per provare ad aiutare gli altri.

Perché hai scelto come titolo “L’arcobaleno nel deserto”? C’è qualche allusione/riferimento particolare?
All’apparenza il titolo potrebbe sembrare un’allusione agli estremi della sindrome l’arcobaleno al periodo maniacale e il deserto alla depressione.
In realtà c’è un riferimento reale in quanto durante il servizio militare mi capitò di vedere diversi arcobaleni e nel mio quadernetto, il diario di quei giorni, li descrissi. Poi, c’è un riferimento figurato in quanto scrissi anche un brano in cui l’arcobaleno era il ponte per innalzarsi dal deserto del male e dell’ignoranza. Il titolo deriva da quest’ultimo.

Paolo, quale compito vorresti che assolvesse questo tuo libro?
Portare conoscenza e speranza. Le malattie psichiatriche sono ancora considerate un tabù e i continui attestati di stima che mi giungono dimostrano che le persone pensano che io abbia compiuto un incredibile gesto di coraggio. Non è così. Sono guarito, avevo gli strumenti per raccontarlo e l’ho fatto perché era la cosa giusta da fare. Chiunque abbia la possibilità dovrebbe farlo per aiutare gli altri. Forse non ci si rende conto ma ci sono stati momenti della mia vita in cui nessuno pensava, me compreso, che potessi più tornare a una vita normale. Ora, senza dare false speranza a nessuno perché ogni paziente è diverso e ogni caso più o meno grave, so che è possibile tornare alla vita, una vita ricca e soddisfacente. Ribadisco! Tornare alla vita, rinascere si può.

Quale deve essere il ruolo dei familiari e delle persone vicine a chi soffre di bipolarismo?
È un ruolo molto delicato e fondamentale. In generale nel momento in cui si pensa che un proprio parente possa soffrire di un disagio psicologico o una sindrome come il bipolarismo è necessario consultare il medico di base il quale indirizzerà il paziente e i familiari agli specialisti e alle strutture che sono presenti sul territorio.
Successivamente cercare di controllare che assuma i farmaci con regolarità e che si presenti agli incontri con i dottori.
Il discorso si fa più complesso se il paziente non riconosce di avere un problema (primo vero presupposto per la guarigione). I familiari devono comunque consultare gli specialisti e seguire le loro istruzioni. Gli approcci cambiano anche a seconda della fase: in quella depressiva ricordo che mi infastidiva molto essere pungolato a fare delle cose, anche semplici. Volevo rimanere il più possibile nel mio guscio. In quel momento esortare il paziente ad agire credo non sia corretto perché non ci sono ancora le condizioni perché lui lo faccia. Successivamente dopo che i farmaci ed eventualmente la psicoterapia hanno fatto effetto allora i primi leggeri stimoli sono utili.
Nella fase maniacale suggerirei di stare ad ascoltare il paziente, non limitare la sua volontà di continuo movimento anche se può essere pericoloso. Gli psichiatri sanno quando è il momento di intervenire eventualmente anche con un trattamento sanitario obbligatorio.
La scoperta di un disturbo psichiatrico in una persona vicina provoca sensi di colpa, stress, preoccupazioni, timori e un’infinità di altre conseguenze in chi lo circonda.
È fondamentale che i parenti e gli amici mantengano la lucidità consapevoli che hanno a che fare con una malattia come le altre che va curata con gli strumenti che mette a disposizione la scienza: farmaci e terapie. Nessuno deve farsi sopraffare dalla paura o dal senso di colpa che è fuori luogo.

Durante il tuo lungo percorso come si sono evoluti i farmaci?
La scienza ha fatto incredibili progressi. La ricerca ha permesso di avere, direi nell’ultimo decennio, dei farmaci che non danno effetti collaterali evidenti. Nulla a che vedere con la sonnolenza e la compromissione della lucidità che derivavano dall’assunzione dei farmaci negli anni novanta.

Chi sono le figure che ti hanno accompagnato in questo percorso di guarigione?
La mia famiglia, in particolare mio fratello maggiore Fabio, mia cognata Monica. Poi, i dottori, le psicologhe, gli psicologi, gli psichiatri, le infermiere e gli infermieri, le amiche, gli amici, le colleghe, i colleghi. Un’infinità di persone e anche qualcuno da lassù.

Ti capita di aver paura che i vecchi fantasmi possano tornare e farti ripiombare in quegli stati d’animo?
No. Vivo una vita serena e, rispetto al passato, grazie all’esperienza, ai farmaci, al lungo percorso di terapia psicologica e ai controlli periodici ho a disposizione molti strumenti per evitare che accadano nuovi episodi e questo mi dà molta tranquillità. Inoltre se nonostante tutti questi strumenti preventivi dovesse accadere qualcosa sia i dottori che i miei familiari che io stesso sappiamo esattamente cosa fare per limitare tempestivamente i problemi.

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