Intervista a Marta Brioschi

Intervista a Marta Brioschi

Marta Brioschi, dopo i successi “La casa gialla” (2022) e “Il gioco delle ombre” (2023), ritorna con un avvincente thriller psicologico, “Ferite a Fior di Labbra”, pubblicato da Be Strong Edizioni. L’autrice, nota per il suo primo romanzo ispirato ai k-drama, esplora il tema attuale della violenza nelle sue diverse forme e sfaccettature. Ne parliamo insieme.

Marta Brioschi, qual è stata la fonte d’ispirazione principale che l’ha spinta a scrivere questo coinvolgente thriller psicologico?
La mia passione per la psicologia come materia di studio e l’aver vissuto molte esperienze in cui ho subito od ho visto subire varie forme di violenza psicologica. Il mio romanzo parte da uno spunto assai leggero, cioè l’idea che un gruppo di appassionati di drama coreani arrivi addirittura a desiderare e ad aver bisogno di disintossicarsi dalla propria passione, divenuta ormai una forma di vera e propria ossessione, ma improvvisamente il lettore si troverà calato in mezzo ai veri drammi personali dei personaggi e la trama si farà più densa. Così è la vita. All’apparenza tutti più o meno conduciamo vite normali, ma spesso basta grattare appena la superficie e si aprono scorci su realtà molto più oscure. Nella mia vita ho fatto esperienze di un po’ di queste cosiddette vite “normali” e a un certo punto ho sentito il bisogno di parlarne.

Ha esplorato il tema della violenza in molte sfaccettature in questo romanzo. Cosa l’ha spinta ad affrontare questo argomento complesso e attuale?
Il bisogno di farlo. E per due motivi: per rielaborare parte delle mie esperienze e per lanciare un sasso nello stagno, facendo sì che altre persone possano dire: “Ehi, io qui mi ci riconosco! Allora queste cose non capitano solo a me.“ Siamo in tanti ad aver fatto esperienze di violenza a vari livelli e la violenza insegna ad essere violenti. Se non si spezza il circolo vizioso, continueremo ancora a subire e a far subire atteggiamenti violenti, perciò è necessario riconoscerli per ciò che sono, evitando di appiccicarvi etichette di altro tipo per giustificarli. Purtroppo, viviamo in una società in cui molti comportamenti violenti non vengono riconosciuti come tali e si tende ancora a spostare le responsabilità sulle vittime. Questo succede con le forme di violenza fisica, ma ancor più con quelle di natura psicologica.

C’è anche in questo nuovo libro l’influenza dei k-drama? In cosa consiste?
Certo, è presente, perché i personaggi principali sono letteralmente ossessionati da quel mondo e vi fanno spesso riferimento, e c’è anche una ragione più sottile. Nei k-drama, sono frequentissimi i riferimenti a traumi subiti dai protagonisti nel passato (nell’infanzia o addirittura in vite precedenti) usati dagli autori per spiegare le azioni e i comportamenti dei protagonisti. Proprio come faccio io con il mio racconto.

Il suo libro è dedicato a chi soffre di Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso. Qual è il messaggio principale che vuole trasmettere a coloro che affrontano questa sfida?
Chi ne soffre in Italia in questo momento, probabilmente non sa di soffrirne perché il nostro sistema sanitario non accoglie questo tipo di diagnosi. Gli studi su questo tipo di disagio psicologico sono recenti, e la maggior parte della letteratura sulle terapie è di stampo statunitense. Il messaggio che vorrei che le persone vittime di traumi psicologici ricevessero è che se in qualche modo riconoscono qualcuno dei comportamenti descritti nel mio libro, è probabile che stiano vivendo delle situazioni di grande stress e che quello stress non dovrebbe essere ignorato, ma condiviso con un professionista, in modo che nel tempo non lasci ferite dolorose, che a loro volta distorceranno le relazioni con gli altri.

Come ha preparato la sua ricerca?
Leggendo libri sull’argomento e facendo ricerche in rete.

Ha collaborato con la psicologa Annalisa Barbieri per fornire approfondimenti scientifici. Come è stata questa collaborazione e quanto è importante per lei aver offerto una base psicologica solida nel romanzo?
In realtà non ho il piacere di conoscere la dottoressa Barbieri, ma ho letto ciò che scrive ed è una delle poche professioniste in Italia che fa divulgazione su un tema così nuovo. O almeno lo era fino a un anno e mezzo fa, quando ho incominciato a interessarmi al Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso. Non sono tuttavia diventata un’esperta in materia e infatti nel libro non affronto il problema da un punto di vista tecnico-divulgativo. Ho studiato quanto bastava per rendere credibili i miei personaggi.

Il romanzo affronta un tema complesso. Qual è il messaggio che intende trasmettere sui complessi intrecci delle relazioni umane?
Il messaggio principale sulle relazioni credo sia che tendiamo sempre a privilegiare le relazioni in termini compensativi, soprattutto nelle relazioni di coppia, per cui io cerco nell’altro quello che penso o sento mi manchi. Tentiamo insomma di metterci delle toppe sull’anima, attraverso le relazioni e così si stabiliscono legami simbiotici o addirittura parassitari, mentre per avere delle relazioni sane è necessario essere già integri e completi. Il problema è arrivare a quell’integrità. Ci si aspetta che un adulto sia una persona fatta e finita, ma si può rimanere incompleti per tutta la vita. Di fatto molti di noi non maturano mai, a dispetto degli studi compiuti e questo perché il contesto familiare e formativo in cui siamo cresciuti era inadeguato. In buona sostanza, le relazioni (familiari, di coppia come amicali) sono difficili, perché l’essere umano è un organismo estremamente complesso e fragile che agisce in una rete di rapporti gerarchici in cui è spesso purtroppo il Potere e non l’Amore il fattore regolativo.

“Ferite a fior di labbra” esplora la violenza nelle relazioni familiari e interpersonali. Pensa che la narrativa possa giocare un ruolo nel sollevare consapevolezza su questi temi sociali?
Ne sono certa. È necessario che se ne parli e che sull’argomento possano dialogare voci diverse, da prospettive diverse. Parlarne e rappresentare in più forme la violenza è necessario per creare consapevolezza, per generare dubbi, per porsi delle domande e infine anche per non sentirsi soli e invisibili.

I personaggi di Emma, la psicologa, e di Artem, il ragazzo con una storia familiare difficile alle spalle, sono centrali nella trama. Come ha sviluppato questi personaggi e qual è il loro ruolo chiave nella storia?
Emma è nata da sola ed è venuta a bussare alla porta della mia immaginazione perché aveva bisogno di dire qualcosa. Non ho avuto nessun particolare riferimento per la sua creazione. Nell’aspetto fisico e comportamentale mi ha vagamente ispirato un’amica gattofila, nulla più. Emma è una ragazza che ha delle evidenti fragilità ed è anche una ragazza abbastanza insicura. Non lo dico mai nel racconto, ma immagino che molti dei miei lettori la immaginino un po’ come la classica secchiona. Dai suoi comportamenti si può dedurre che sia arrivata a studiare psicologia per motivi personali, per cercare di sanare una parte di sé che ha sofferto e ancora soffre e questo non è raro in chi sceglie questo tipo di studi. Artem invece è un puzzle di più persone reali. Il nome di battesimo e la nazionalità li ho rubati a uno dei migliori amici di mia figlia, con una storia dolorosissima alle spalle, anche se diversa essendo i suoi traumi più che altro legati alla guerra in corso; le caratteristiche fisiche invece le ho prese da un ragazzo che ho conosciuto in un bar e che si è rivolto a me proprio come ha fatto Artem nel mio libro con Emma, e infine la complessità del carattere da una ragazza che conosco personalmente e a cui voglio molto bene. Artem è il personaggio che amo di più e che nel corso della narrazione mi ha coinvolto profondamente nei suoi drammi. Doveva rimanere sullo sfondo, secondo le mie intenzioni iniziali e invece si è scelto una parte da protagonista. Evidentemente la sua voce era importante e ho dovuto permettergli di usarla.

Cosa spera che i lettori portino con sé dopo aver letto “Ferite a Fior di Labbra”?
Una qualche forma di sollievo. È una storia che raccoglie in sé diverse storie difficili, ma che alla fine ha una sua conclusione felice, perché offre speranza. La forma peggiore di violenza che possiamo subire, o persino auto-infliggerci, è l’idea d’impotenza. La convinzione di non avere il controllo della nostra vita e di non avere possibilità di scegliere alternative. Vorrei che il mio libro raccontasse proprio questo e cioè che per quanto possa sembrare impossibile, c’è invece sempre la possibilità di scegliere e se qualcosa nella nostra storia non va, non solo possiamo, ma dobbiamo riscriverla e non solo per noi, ma anche per chi ci accompagna lungo la strada.

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