Lo scrittore pistoiese Marco Spinicci torna in libreria con il romanzo “A ciascuno la sua prigione”. Il libro incastra alla perfezione romanzo di formazione, giallo e saga familiare, in una più ampia cornice che contempla riflessioni di natura filosofica sulla condizione umana e motivi di dura critica sociale. Abbiamo un po’ di domande per l’autore.
Marco Spinicci, partiamo dall’inizio, “A ciascuno la sua prigione”. Perché questo titolo?
Il titolo prende lo spunto dalla mia convinzione che ogni essere umano nasce libero ma, nel proseguo della vita, si trova ad affrontare condizionamenti sociali e familiari, situazioni avverse di vario tipo, ad indossare maschere di convenienza, fino a coltivare e sviluppare sentimenti e schemi mentali che, inconsapevolmente, limitano la possibilità di godere fino in fondo della vita. Ognuno crea le personali catene interiori a seconda della sua reattività, delle sue caratteristiche genetiche e dei rapporti che contrae con le altre persone.
Da dove nasce l’ispirazione per questo libro?
L’ispirazione nasce dalla mia ricerca di trovare le modalità per sentirsi veramente liberi. La felicità è uno degli scopi principali cui tendiamo nel corso della vita e difficilmente la possiamo raggiungere senza la libertà.
Una frase che ci ha colpiti è: «Nessuna prigione è peggiore di quella che ci costruiamo noi stessi». Può spiegarci cosa vuol dire?
Rispondo con un esempio che troviamo nel romanzo: coltivare il rancore per anni e anni verso una o più persone può influenzare la capacità di vedere gli altri, può restringere il nostro campo d’azione, il modo di percepire le emozioni, fino a creare dei veri e propri muri attraverso cui non possono più passare nemmeno la gioia, la fratellanza, la compassione.
Nel libro lei stesso si chiede, in fondo, se siamo davvero liberi di costruire il nostro destino, se siamo in grado di sottrarci ai condizionamenti ambientali e sociali e se tutto non sia già scritto dal destino. A quale conclusione è giunto?
Sono giunto alla conclusione che è possibile costruire il nostro destino e sottrarci ai condizionamenti ambientali e sociali. Sì, questa possibilità si chiama “consapevolezza”, osservarsi in presenza consapevole e capire allora il nostro scopo nell’essere venuti al mondo, le nostre attitudini staccandosi piano piano dai nostri egoismi che spesso alterano la visione obiettiva del mondo.
Il giallo della morte di Ottavio Rustici può essere assunto a esempio magistrale di come la verità formale stabilita da un tribunale, rappresenti un’illusione o tutt’al più un’approssimazione rispetto alla verità fattuale, spesso inconoscibile e inattingibile. E spesso le sentenze alimentano l’ingiustizia, come avviene nel suo romanzo. Cosa ne pensa?
E’ un tema molto complesso. La struttura giudiziaria nasce da un’etica sociale. Nel momento in cui l’uomo si è organizzato in società con regole e norme, logica vuole che deve essere assicurata una pena per chi contravviene a queste regole. La vita e la morte, il giorno e la notte, il bene e il male sono elementi complementari, senza uno non potrebbe esistere l’altro. Seguendo questo pensiero, l’errore fa parte di ogni disciplina dell’esistenza umana. Nella nostra società, poiché c’è la lotta al male, l’errore giudiziario viene pensato soprattutto quando non vengono inflitte pene più severe o quando si scopre che è stato messo in carcere un innocente (più raramente). Ma il tribunale, qualunque sia l’azione malvagia fatta, si affida a codici ed articoli che per forza rappresentano un approssimazione rispetto ai fatti particolari e unici. Sta al giudice andare oltre a ciò che sembra scontato e cercare di approfondire. Nel romanzo la verità è fatta di un groviglio di situazioni, sentimenti, azioni collaterali al fatto in sé. Farsi delle domande e osservare a 360 gradi: questa è una strada che a mio parere porta sempre a delle scoperte.
Ci è sembrato anche di aver colto una critica al sistema carcerario che sul fronte della riabilitazione ha completamente fallito. È così?
Sì, è così. Il carcere è nato per segregare, allontanare dalla società i colpevoli perché non rappresentino un pericolo per gli altri. Lo scopo sarebbe quello di rieducarli e riabilitarli, nell’attesa di tornare guariti nel tessuto sociale. Tutto questo sulla carta. In pratica credo che avvenga poche volte. Conosciamo tutti le condizioni delle carceri: sono luoghi dove raramente si “educa” alla riabilitazione, le persone che vi entrano sono come frutta destinata a marcire. Il carcere spesso è un organo infetto della società. Ma il funzionamento della nostra convivenza civile si misura anche dalla capacità di dare una possibilità trasformativa per chi ha sbagliato ed è andato in prigione.
A quale genere letterario può ascriversi il libro?
Non può essere etichettato in un genere preciso, potrei definirlo giallo psicologico/familiare/storico/sociale.
Marco Spinicci, ci parli un po’ di lei: chi è, cosa fa, dove vive?
Ho sempre cercato di sintonizzarmi con l’universo nelle sue parti, con la Natura nei suoi vari aspetti biologico e cosmico. Lavoro come Medico Odontoiatra, libero professionista da oltre trent’anni a Pistoia. Vivo a Pistoia con la mia famiglia, sono sposato e ho due figli.
Scorrendo l’elenco delle sue opere, troviamo libri di saggistica, poesia e narrativa. Qual è, se c’è, il comune denominatore?
Il comun denominatore dei miei libri è leggere la vita su più piani, sia quelli alti spirituali, sia quelli più bassi (i cosiddetti mondi di inferno) pensando che in ogni situazione, in ogni istante della nostra vita si può aprire la porta del riscatto.
Sta lavorando ad altri libri? Se sì, vuole anticiparci qualcosa?
Sì, il prossimo libro sarà un romanzo sugli aspetti genealogici familiari e sui linguaggi intorno a noi che facciamo fatica spesso a comprendere nello svolgimento delle nostre giornate. Il linguaggio degli sguardi, delle parole nascoste, il linguaggio dei fiori, delle nuvole. Un invito a tendere più gli orecchi, a guardare con occhi attenti ciò che può nutrire meglio il cuore.
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