Intervista a Matteo Mastragostino e Paolo Castaldi

Intervista a Matteo Mastragostino e Paolo Castaldi

La matita che disegna l’orrore: una graphic novel per non dimenticare

Cinquant’anni fa, il 17 aprile 1975, i Khmer Rossi entravano a Phnom Penh. Iniziava così uno dei capitoli più bui della storia del XX secolo: il regime di Pol Pot, che in meno di quattro anni avrebbe causato la morte di circa due milioni di cambogiani. Mezzo secolo dopo, mentre il mondo cerca ancora di fare i conti con quella tragedia, una graphic novel riporta alla luce la storia straordinaria di Vann Nath, uno dei dodici sopravvissuti della famigerata prigione S-21, dove furono torturate e uccise 20.000 persone.
In questa intervista, Matteo Mastragostino e Paolo Castaldi, sceneggiatore e disegnatore, ci raccontano il processo creativo dietro un’opera che trasforma la testimonianza di un artista – sopravvissuto grazie al suo talento di pittore – in un potente documento storico illustrato.

Nel cinquantesimo anniversario della presa del potere dei Khmer Rossi, la vostra opera, pubblicata in Italia da Albeggi edizioni, assume un significato particolare. Come è nata l’idea di raccontare proprio la storia di Vann Nath?
MATTEO – È stato un incontro casuale. Alla biblioteca di Lecco vidi l’autobiografia di Vann Nath pubblicata da Add Editore e mi incuriosii. Iniziai a cercare informazioni e scoprii una storia che andava raccontata.

Nei vostri disegni in bianco e nero riecheggia qualcosa dei dipinti di Nath. Come avete lavorato per trovare uno stile che dialogasse con la sua arte ma mantenesse una voce propria?
PAOLO – Credo che ogni storia contenga uno suo segno, un suo tratto. Almeno, per me funziona così. Leggo la sceneggiatura, guardo le reference che mi fornisce lo sceneggiatore, ne cerco di nuove e inizio a buttare giù degli studi. Parto da quello che so già fare, dal tratto con cui ho chiuso il libro precedente magari, ma poi il mio disegno prende la sua direzione, è lui che decide dove andare, a volte ispirato proprio da un elemento esterno, come i dipinti di Vann Nath. Ma non è una scelta ponderata, succede e basta.

La prigione S-21, oggi museo del genocidio, è un luogo che conserva una memoria traumatica. Come avete affrontato la rappresentazione di questi spazi?
PAOLO – Anche qui, reference, reference, reference. Quando tratto un tema storico cerco di portare il giusto rispetto, anche a livello visivo. Non do modo al mio ego di prevaricare i fatti. Le prigioni erano fatte così? E io le rappresento così. Per rispetto, non per integralismo tecnico. Tanto poi ci penserà la mia sensibilità artistica, anche inconsciamente, a filtrare quelle reference e a dargli una personalità ben precisa e personale.

Nel libro emerge con forza il tema della responsabilità individuale, specialmente attraverso le figure di Duch e della guardia Huy. Perché era importante includere anche la prospettiva dei carnefici?
MATTEO – Perché spesso i carnefici non si sentono colpevoli, ma vittime loro stessi di un ingranaggio che non riuscivano, o non volevano riuscire, a fermare. La verità è che si ha sempre una scelta, se si ha la reale volontà di opporsi.

“Non esiste pace qui, solo le anime dei morti che si lamentano nel vento” – questa frase ha una potenza devastante. Come si bilancia il dovere di raccontare la verità storica con la necessità di non sopraffare completamente il lettore?
MATTEO – Ho cercato di raccontare la realtà, anche nella sua crudezza, ma senza mai volerla spettacolarizzare. Le scene più dure sono inserite solo per far comprendere al lettore la realtà delle cose.

Il libro mostra come l’arte di Vann Nath sia stata prima strumento di sopravvivenza e poi di testimonianza. Come avete rappresentato questa evoluzione?
PAOLO – ho cercato di immedesimarmi. Cosa avrei fatto io nella sua situazione? Come avrei provato a salvarmi la vita grazie alla mia arte? Credo che questo, e lo dico proprio perché disegno anche io probabilmente, sia uno degli aspetti più interessanti di questa storia.

La scelta di includere alcune riproduzioni dei dipinti originali di Nath nelle pagine finali crea un potente effetto di realtà. Come avete selezionato quali opere includere?
MATTEO – L’idea è stata del nostro editore francese, Vincent Henry. Ha contattato direttamente la moglie di Vann Nath, che è ancora vivente, e scelto le opere che riteneva più significative.

Il processo a Duch occupa una parte significativa del libro. Quanto era importante mostrare questo momento di confronto tra vittima e carnefice, specialmente considerando che molti dei responsabili non sono mai stati processati?
MATTEO – Era importante per far capire che gli anni di lotta e denuncia di Vann Nath e degli altri superstiti non sono stati vani. La condanna di Duch è stata un segnale potente, che ha segnato un prima e un dopo in Cambogia.

A cinquant’anni da quegli eventi, quale messaggio sperate che i giovani lettori colgano da questa storia?
MATTEO – Più che un messaggio, è importante per il lettore vedere quello che succede quando un regime non democratico prende il potere. La storia del Khmer Rossi è poco conosciuta in Italia, ma la crudeltà dimostrata da quel regime penso sia stata inenarrabile.

Il fumetto sta diventando sempre più un mezzo per raccontare la storia e preservare la memoria. Quale responsabilità comporta questo ruolo?
MATTEO – La responsabilità di essere onesti con se stessi e coi lettori, di raccontare le storie con il giusto distacco emotivo, cercando comunque di suscitare emozioni. Gli autori accompagnano i lettori in un viaggio nel passato, cercando di far aprire i loro occhi sul futuro.
PAOLO – L’unica responsabilità la sento verso la storia che sto raccontando e i suoi protagonisti, non verso il lettore. Quando ho raccontato la storia vera di Etenesh, una ragazza che attraversa un inferno di due anni, tra deserto, prigioni libiche e mar mediterraneo per arrivare in Italia, continuavo a pensare a lei mentre scrivevo e disegnavo. Alle sue lacrime durante l’intervista, all’inferno che ha vissuto. Pensavo costantemente “questa scena come potrà viverla lei, leggendola?”. Cerco sempre di mettermi in una posizione di subalternità, cerco di annullare l’ego che ogni artista si porta inevitabilmente dietro, quando realizza un’opera. Poi chiaro, mi fa piacere che quest’opera venga letta e divulgata il più possibile. Un’altra cosa, che non è una responsabilità dell’artista ma un obbligo: prendere posizione.

Vann Nath, un sopravvissuto all’inferno cambogiano. Disponibile sulle principali librerie online e nelle librerie tradizionali.

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