Intervista a Roberto Tarallo

Intervista a Roberto Tarallo

Sangue rosso

In questa intervista esclusiva dialoghiamo con Roberto Tarallo, autore di “Sangue Rosso”, un romanzo che si addentra nei meandri della geopolitica contemporanea attraverso una spy story avvincente. Tarallo ci svela il dietro le quinte della sua opera, dalla scintilla che ha innescato la narrazione, nata da esperienze personali legate al conflitto in Ucraina, fino alla minuziosa ricerca che ha conferito realismo alla trama e ai personaggi. L’intervista esplora le complesse questioni etiche sollevate dal libro, come la legittimità del tirannicidio, e offre una riflessione critica sul ruolo delle democrazie occidentali nel panorama globale attuale.

Roberto Tarallo, “Sangue Rosso” è ambientato in uno scenario geopolitico attuale e complesso. Cosa l’ha spinta a scrivere questo romanzo?
Ho conosciuto mia moglie Viktoria a maggio del 2022 quando andai a Kiev per la prima volta, durante la guerra, in un viaggio che aveva suscitato preoccupazioni ed i timori di amici e parenti. Fin dal febbraio avevo seguito il conflitto attraverso i media ma non avrei mai pensato di ritrovarmi, dopo pochi mesi, immerso in un territorio bombardato ed a parlare con persone che avevano vissuto i giorni terribili dell’invasione russa. Questo mi fece riflettere molto ed ha come scatenato in me il desiderio di raccontare di una profonda ingiustizia perpetrata verso un popolo che stava cercando di avvicinarsi ad un modo di vivere più libero e trasparente. Il sacrificio di migliaia di persone, giovani soprattutto, desiderose soltanto di maggior libertà, indipendenza e democrazia ha dimostrato quanto fragile fosse e sia la pace che da quasi ottanta anni viviamo in Europa. Avere alle porte della nostra unione una guerra che, anche per un solo piccolo errore, si potrebbe estendere ed incendiare nuovamente il mondo mi ha imposto di chiedermi cosa si potesse fare per salvaguardare la relativa tranquillità, il benessere acquisito e lo stile di vita che ci siamo costruiti. Questi pensieri hanno lavorato dentro di me per mesi e mi hanno dato lo spunto per raccontare, attraverso una fiction forse provocatoria, non solo la complessità ma soprattutto la crisi e l’impotenza del mondo attuale verso queste sopraffazioni.

L’intreccio della spy story e i dettagli relativi ai servizi segreti sembrano dettagliati. Quanto c’è di ricerca e quanto di immaginazione nella costruzione della trama?
Potrei rispondere dicendo che ricerca ed immaginazione sono entrambi stati utilizzati nella stesura del romanzo, in ugual misura.
C’è sicuramente una grandissima ricerca in quanto non ho voluto lasciare nulla al caso e non ho voluto incorrere in fastidiose imprecisioni. La spy story, essendo attualissima, doveva  riflettere situazioni ed organizzazioni assolutamente reali. Attraverso vari tipi di documenti, storie recenti, reportage, riviste specializzate e qualche libro più tecnico, ho cercato di ricostruire con più dettagli possibili ciò che si agisce nei servizi segreti occidentali (e non solo), come sono organizzati e come operano, lasciando spazio alla fantasia soltanto per alcune ricostruzioni passate, che comunque prendono spunto da avvenimenti accaduti realmente. Anche la ricostruzione su equipaggiamenti, armi utilizzate e droni è assolutamente aderente al reale e frutto di approfondite analisi.
Ma non posso comunque tralasciare che la scrittura del romanzo è stata, per così dire, ispirata e  supportata da fantasia e conoscenze acquisite dalla lettura di spy stories e dalla visione di cinematografia gialla e thriller di qualità. L’idea di utilizzare agenti non più in servizio e con competenze diverse per una azione molto temeraria potrebbe suscitare qualche perplessità, ma al contrario ho ritenuto molto credibile questa strada.
§Quindi direi che pur non avendo conoscenze dirette personali in merito ai vari servizi di sicurezza nazionali, le ricostruzioni sono sono basate su fatti certi, attuali e reali, quindi assolutamente verosimili ed intrecciate con una trama altrettanto verosimile.
Non dimentichiamoci mai comunque che spesso la realtà supera di gran lunga la fantasia.

I protagonisti del romanzo sono tre ex agenti segreti di diverse nazionalità. Come ha lavorato alla costruzione della loro psicologia? Si è ispirato a figure reali?”
Sì, mi sono ispirato a figure che ho conosciuto. Non lavoravano nei servizi segreti ovviamente, ma erano tutti amici stretti con cui ho collaborato per anni. Ho attinto dalle loro caratteristiche individuali e dalle loro capacità personali, oltre che dal loro carattere, elementi per delinearne figure, spero, credibili e realistiche. Non solo, ci sono anche dettagli autobiografici che sono relativi ad alcune competenze specifiche come pilotare un velivolo di aviazione generale, quale un Cessna 172.  Anche i dettagli di ambientazione sono per lo più assolutamente veritieri in quanto tutte le località che ho descritto (tranne Mosca) sono state da me frequentate per lungo tempo, come il sud d’Inghilterra dove ho vissuto per oltre un anno o la città di Colonia dove sono stato almeno trenta volte.
Il lettore si potrebbe chiedere il motivo della scelta di agenti di tre nazionalità diverse, più un organizzatore polacco, e questa sarebbe una domanda pertinente. Bene vorrei rispondere che il romanzo doveva avere un respiro europeo in senso lato. Ho ritenuto che l’idea portante che sta dietro al romanzo, condivisibile o meno, dovesse essere accettata (pur non essendo una azione ufficiale) da più nazioni possibili anche nella sua crudezza. Questo per simboleggiare l’importanza della nostra unione, incompiuta ancora, nel bene e nel male, ma comunque una unione di intenti.
Non dimentichiamo che le sorti dell’Europa sono uniche e tutti i paesi che ne fanno parte non possono chiamarsi fuori. Il destino è assolutamente comune così come la capacità di reazione ad avvenimenti aggressivi dovrebbe essere altrettanto comune.

Ci sono autori o romanzi di spionaggio che l’hanno ispirata nella scrittura di Sangue Rosso?
Non posso che citare due giganti come John Grisham o Ken Follett… ma non vorrei che fossero presi a paragone con la mia spy story, per ovvi motivi di credibilità e di rispetto… Nella mia creazione ho cercato di produrre un romanzo che avesse uno scopo ed invitasse alla riflessione oltre che descrivere una mera azione fantasiosa coraggiosa e patriottica. I due grandi autori, oltre alcuni autori italiani di gialli, mi hanno ispirato ad uno stile tipo sceneggiatura cinematografica con capitoli molto brevi in taluni casi, ma che creassero, così spero, un incalzare di avvenimenti e cambi di scena che invogliassero alla lettura. Nello specifico inoltre, le letture di alcuni giallisti italiani (vorrei dire Camilleri ma anche Carrisi) mi hanno ispirato a lavorare sulla costruzione a tappe delle figure psicologiche degli ex agenti Nick, Stefan e Giovanni, intrecciando dettagli della loro vita passata, le vicende attuali della vita quotidiana, con la crescita dell’idea di partecipare ad una azione operativa molto pericolosa ma di sapore patriottico in senso lato. Senza dimenticare le concatenate vicende personali e storiche che hanno interessato il Generale Rodiowsky.

Scrivere un romanzo su un conflitto ancora in corso comporta delle sfide particolari. Potrebbe descrivercele?
Certo, scrivere di qualcosa ancora in corso, orripilante come una guerra che sta facendo ancora molti morti, aggiungo inutilmente, comporta una sfida importante che è quella di confrontarsi e confrontare le idee che si mettono nel libro con lo svolgersi della realtà. La fiction che ho scritto rappresenta una delle possibili evoluzioni del conflitto, una delle idee più estreme che si potrebbero mettere in campo ma le cose potrebbero andare in modo molto diverso (e lo spero!). Quindi potrebbe rimanere soltanto una fantasia provocatoria o di stimolo, non coerente ed allineata alle vicende reali una volta terminato il conflitto. Ma lo scopo della spy story, scopo che a mio parere rimarrà comunque valido, è che in effetti si tratta di una sorta di provocazione sulla crisi deflagrata tre anni fa e sulle capacità di trovare soluzioni efficaci da parte democrazie attuali alla risoluzione di questi conflitti.
Non possiamo nascondere il fatto che negli ultimi anni il nostro continente, incapace di trovare politiche veramente condivise, si è spaccato su molti fronti economici e politici ed offre al mondo intero un’immagine di debolezza, talvolta di incoerenza. Se la risposta ad una guerra alle porte dell’Unione Europea non può essere un tirannicidio, allora bisogna avere più coraggio nel far emergere altre soluzioni e soprattutto più veloci. Purtroppo in un mondo che cambia velocemente il nostro continente è rimasto molto indietro.
Inoltre se la sfida nello scrivere Sangue Rosso è spingere all’analisi ed alla riflessione dobbiamo porci domande e sforzarci di dare risposte.
Senza ricorrere ad analisi storiche di quali siano i motivi principali che generano una guerra, siano economici, sociali, di dominio o sopraffazione, o di semplice vanagloria di qualche tiranno, dovremmo chiederci:
Perché si è arrivati alla guerra tra Federazione Russa ed Ucraina?
Cercare di approfondire i motivi non sarebbe un esercizio inutile. Ricordo che molti analisti, all’inizio del conflitto, hanno tentato di spiegare il percorso che ha portato alla guerra ma una certa ottusità e/o voglia di non capire, o far finta di non capire, o posizioni troppo ostinate ideologicamente, hanno fatto passare queste spiegazioni per posizioni propagandistiche. Forse dovremmo essere, o diventare, più obbiettivi nella nostra analisi e cominciare ad accettare, in maniera adulta e neutrale, anche visioni diverse dalla nostra.
E poi, altra domanda, c’era una alternativa? Credo, come scrivo nel libro e come mi sono rappresentato, che ci sia un’inefficienza delle grandi nazioni occidentali nell’affrontare con maggior risolutezza queste situazioni.
O forse, e questo è un quesito da non trascurare, sono le democrazie compiute in grado di evitare in futuro conflitti come quello russo ucraino?
Se sì attraverso quali mezzi, quali comportamenti?

Il romanzo, pur restando nel campo della fiction, suggerisce l’eliminazione di un capo di stato estero come soluzione a un conflitto complesso e sembra dare per scontato che le colpe stiano tutte da un solo lato. Non teme che un messaggio simile possa alimentare l’idea che la violenza e il tirannicidio siano legittimi strumenti di risoluzione, oscurando il valore della diplomazia e della ricerca di soluzioni pacifiche?
Ottima domanda a cui voglio rispondere in modo chiaro. Sono contro ogni tipo di violenza, soprattutto quella perpetrata contro capi di Stato che creerebbero un vulnus terribile se utilizzate soprattutto da democrazie occidentali. Gli Stati Uniti vietano questa possibilità nella costituzione. E tuttavia torniamo al quesito di base che è: come stanno reagendo le cosiddette democrazie occidentali ai grossi cambiamenti geopolitici che stanno avvenendo nel mondo? Ed alle numerose guerre in corso di cui nessuna parla? Le opinioni pubbliche vogliono soprattutto stabilità in un modo di cambiamenti tecnologici e sociali quotidiani. Altri grandi punti di riferimento – per non chiamarle superpotenze – si stanno aggregando e non sono certo democrazie compiute come le nostre. Quindi come pensiamo di adeguarci? Come pensiamo di interagire con loro?
Il mio libro è una risposta provocatoria: se i governi non riescono a raggiungere accordi atti alla convivenza pacifica ed al rispetto di tutti sarà inevitabile una deriva personale dove qualcuno molto motivato prenderà un’iniziativa privata, o violenta o tesa ad eliminare i cosiddetti tiranni o, viceversa, contro le democrazie compiute. E come tiranni sono classificabili in questa categoria almeno cinque sei grandi capi di governo nel mondo, che governano qualcosa come cinque miliardi e oltre di persone che vivono in questi paesi dove democrazia e rispetto di diritti civili sono una chimera. Quindi il mio intento è provocatorio e vuole far considerare che l’unica risposta è un dialogo continuo tra tutti ed una reale volontà comune di progressione pacifica, che credo sia il desiderio di tutti i popoli. Ma dialogare, confrontarsi, capirsi, accettarsi non è cosa facile. Richiede impegno, cadute, riprese e resilienza.
Vorrei che il lettore considerasse soprattutto le ultime pagine del romanzo dove, dopo una grande azione violenta, un inaspettato cambiamento avviene nel sentimento popolare di chi, soltanto pochi giorni prima, approvava la restaurazione di un grande impero. Ritengo che i popoli, se messi di fronte ad una scelta, scelgano sempre la pace, la convivenza pacifica, sempre che gli sia consentito di esprimersi liberamente e sempre che idee contorte, eccessivamente populistiche, di confronto ed odio verso l’altro, non vengano propagate e diffuse in modo condizionante le menti delle persone.
Per ciò che concerne le responsabilità del conflitto invece è vero che nel romanzo si prende una parte, quella dell’aggredito, ma la risposta vera che ho anticipato nella domanda precedente è: si poteva evitare il conflitto? Cosa ha portato alla guerra? Bene, se preventivamente si fossero ascoltate con serietà e senza condizionamenti ciò che Ucraina e Federazione Russa si attendevano dal loro futuro, cosa era più pertinente ed imprescindibile per la loro sicurezza nazionale, forse, con maggiore attenzione, si poteva addivenire ad un accordo. Accordo che in parte era definito ma non siglato.

Il libro solleva un interrogativo etico di grande portata: può il tirannicidio essere considerato giustificabile in determinate circostanze?
Non credo sia il caso di aprire una discussione politico filosofica sul tirannicidio. Rammento che la soppressione di un tiranno, definito come colui che per lungo tempo genera sofferenze al suo popolo, è giustificato già nell’antica Grecia se effettuato per il bene comune.
I romani non processarono i cospiratori e gli assassini di Cesare anche se li esiliarono per poco tempo.
Tommaso D’Acquino non disapprovò chi si difende da una ingiusta autorità e neanche “colui che libera il suo paese uccidendo un tiranno”. Anche i gesuiti avevano una simile teoria.
E venendo a tempi più recenti Abramo Lincoln credeva che l’assassinio di un leader fosse moralmente giustificato quando un popolo ha sofferto sotto un tiranno per un lungo periodo di tempo ed ha esaurito tutti i mezzi legali e pacifici di estromissione.
E qui ci fermiamo alle citazioni storiche. Non cito piazzale Loreto.
Ma aggiungo io una domanda: se Hitler fosse stato ucciso nell’attentato organizzato dai suoi oppositori militari e politici nel luglio del ’44 nella persona del colonnello von Stauffenberg come avremmo descritto questa azione dal punto di vista morale? Come per Cesare erano oppositori interni allo stato ma comunque che agivano in buona fede – a loro modo patrioti – per porre fine alle sofferenze di tutti, inclusi i tedeschi. Ovviamente erano condizioni diverse ma lo scopo era lo stesso: fermare un dittatore che si sentiva al di sopra di tutto ed incurante di sofferenze prolungate che stava infliggendo al mondo intero.
In sintesi non ho una risposta precisa. Sono contrario alla violenza di ogni genere ma quanto deve soffrire un popolo prima che porre fine alle sofferenze proprie e altrui?
Le democrazie occidentali hanno sviluppato pesi e contrappesi che possono evitare che un uomo solo decida le sorti di una nazione, e ci siamo arrivati da ottanta anni dopo sei-settecento anni di guerre. Ma nel resto del mondo molti satrapi continuano ad operare in maniera indisturbata.

Lei, da autore, ha preso una posizione chiara su questo tema. Che messaggio vorrebbe che i lettori portassero con sé dopo averlo letto?
Purtroppo in circostanze particolari, se un popolo non ha la capacità o la forza morale di ribellarsi, se non ha la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero deve essere aiutato. Ma questo aiuto solo per extrema ratio dovrebbe passare attraverso un tirannicidio. La storia tuttavia ci ha ripetutamente mostrato che alcuni tiranni, dalle capacità attrattive e direi quasi ipnotiche, sono stati capaci di soggiogare per decenni popolazioni e portarli allo sfinimento ed alla distruzione. Quanto siamo disposti a pagare, quante persone devono morire in carcere o in manifestazioni di protesta o di fame prima che qualcuno faccia qualcosa?
Non lo so, nessuno lo sa.
Così vorrei utilizzare una metafora.
Ogni anno devo sistemare nuovamente il prato verde del mio giardino. Alla fine dell’inverno il prato presenta chiazze ingiallite, malerbe e gramigna da estirpare, zone diventate brulle da riseminare. Se non faccio questo lavoro ogni primavera il prato non sarà più un prato ma un’area confusa, mista, con erba fiori, inguardabile. Crescerà a caso, in base ai pollini importati. Non ci sarà più un’idea di composizione generale. Diventerà un prato incolto, con erba alta, migliaia di insetti.
Ecco, a mio parere diffondere la democrazia, che mi risulta essere ancora oggi nonostante tutti gli acciacchi del tempo il sistema di governo più rispettoso della vita delle persone, non possiamo fare gli sceriffi, i pompieri, né dobbiamo avere la voglia di imporre il nostro sistema imponendolo appunto o spingendo ad arte gruppi, associazioni alla ribellione. La crescita di un popolo e l’avvicinamento ad un sistema democratico devono essere fenomeni quasi spontanei e richiede una cura leggera, un supporto delicato e continuo senza sopraffazione. Ciò che dovremmo fare è parlare con tutti, discutere, accettare comunque alcune differenze anche se non ci piacciono, integrare economie, società ed alla lunga credo che il volere reale delle persone porterà ad un sistema più civile. Così come ci prendiamo cura di tutti gli aspetti di un prato con discrezione, gentilezza senza essere eccessivamente invasivi ma rispettandone la sua unicità, così dovremmo agire nei rapporti con altri paesi rimasti indietro nel governo umano e sociale dei popoli.
Comprendo che si vorrebbe fare in fretta ma non è possibile. Credo che il mondo occidentale dovrebbe anche rinunciare ad alcune cose ed accettare il fatto che le visioni del mondo sono diverse negli angoli della nostra terra ma che sul lungo periodo tutti, e sottolineo tutti, cercano pace e serenità. Un messaggio dal sapore forse troppo ottimista, per il lungo periodo, ma spero che il lettore dopo aver letto il mio libro, tenda a pensarla così.

Lei ha avuto una carriera nel management internazionale prima di dedicarsi alla scrittura. Come è nato l’interesse per la scrittura di un romanzo?
È nato quando sono andato in pensione.
Passare da una attività intensa che richiedeva un impegno intellettuale continuo e capacità nella gestione di gruppi, ad uno stato di quiete, è stato difficile.
Ho avuto sempre diversi hobbies ma cercavo qualcosa che mi desse maggiori soddisfazioni per utilizzare il mio tempo libero.
Ho sempre avuto tendenze creative sia manuali che intellettuali (nella mia vita professionale sono stato Marketing manager tra le altre cose) ed ho comunque sempre dovuto nella mia carriera scrivere brevi testi di story telling o presentazioni sulle aziende che rappresentavo al fine di persuadere clienti a lavorare insieme.
Quindi ad un certo punto ho pensato di scrivere alcuni pensieri e ricordi relativi al management, alcuni consigli, istruzioni su come fare certe cose. Del resto management deriva da maneggiare, del grande Macchiavelli, e si riferisce proprio al saper gestire con delicatezza e decisione le cose che ci sono affidate.
Ho iniziato a scrivere nel 2020 un manuale sulla mia professione, che però è ancora sospeso ed è rimasto allo stato iniziale.
Poi le mie vicende personali mi hanno portato al 2022, allo scoppio della guerra russo ucraina, e come ho descritto all’inizio di questa intervista, ho cominciato ad accumulare dentro me fatti, impressioni, riflessioni.
Evidentemente stavo incubando ed immagazzinando dettagli, idee, fantasie che nel febbraio del 2024, dopo tre viaggi a Kiev, mi hanno portato ad iniziare la stesura di Sangue Rosso.
È stato scritto in soli tre mesi, quasi d’impeto. Era già tutto nella mia mente, dovevo solo digitarlo sul computer. Mi ricordo che stranamente, in quel periodo, molte notti non riuscivo a prendere sonno ed immaginavo ad occhi aperti l’azione ed i capitoli che avrei dovuto scrivere.
Così feci: molte mattine, senza aver chiuso occhio, ma perfettamente lucido, scrivevo anche tre o quattro capitoli.
Ora sono già alla scrittura del terzo libro.

Il prossimo libro rimarrà nel genere del thriller politico o esplorerà altri ambiti narrativi?
Sto lavorando ad una trilogia di gialli ambientati in Italia! Ho appena raggiunto un accordo con una piccola casa editrice pugliese di ottima qualità per la pubblicazione – probabilmente a Maggio prossimo – del primo di questa mini serie. Poi vedremo se ci sarà un seguito.
I Gialli saranno situati nella cittadina di Polignano ed altre piccole località pugliesi limitrofe. Il protagonista, un ex commissario di pubblica sicurezza ritiratosi a vita privata a causa di vicende personali che lo hanno portato ad una forte depressione per due anni, rientra in gioco come consulente della Questura di Bari.
Nel primo libro si parlerà  di una giovane donna trovata morta sugli scogli in un complicato intreccio collegato a vicende sociali ed ecomomiche  reali ed attualissime.
Una caratteristica di questa serie sarà una significativa impronta psicologica ed introspettiva, con la descrizione, in ogni episodio, di una sindrome psicopatologica particolare, e con riferimenti storici e culturali relative alle varie cittadine o borghi nei quali si svolgeranno le azioni.

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